Pubertà e corpo in adolescenza: che cosa mi è accaduto?

“Destandosi un mattino da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto. Se ne stava disteso sulla schiena, dura come una corazza, e per poco che alzasse la testa poteva vedersi il ventre abbrunito e convesso, solcato da nervature arcuate sul quale si reggeva a stento la coperta, ormai prossima a scivolare completamente a terra. Sotto i suoi occhi annaspavano impotenti le sue molte zampette, di una sottigliezza desolante se raffrontate alla sua corporatura abituale.
«Che cosa mi è accaduto?», si domandò. Non stava affatto sognando.”
Franz Kafka, La metamorfosi.

“Io è un altro. Se l’ottone si sveglia tromba, non è affatto colpa sua.”
Arthur Rimbaud, Lettera a Paul Demeny.

Una rivoluzione, un rivolgimento di tutti i parametri noti, a partire dal corpo: questo sembra succedere in pubertà, nel passaggio dall’infanzia all’adolescenza. Nell’arco di un tempo relativamente breve, diventiamo d’improvviso più alti, si sviluppano i genitali, crescono i peli, la barba nei maschi, il seno nelle ragazze, e ancora le mestruazioni, o la prima eiaculazione, tutti questi liquidi, e gli odori più forti, nuove spinte, nuove sensazioni… E tutto in maniera così confusa e disarmonica. Una domanda inevitabile: “Che cosa mi è accaduto?”. Già… Ci ritroviamo adolescenti. Ma come? Dove è finito il nostro corpo, quello che conoscevamo? Perché è un cambiamento che non abbiamo chiesto, la pubertà arriva senza troppo preavviso e ci espropria del corpo dell’infanzia, in cui abitavamo così bene.

Sentiamo in noi una spinta che ci trasforma, e che non dipende da noi. Non sappiamo più chi siamo, né chi diventeremo… Sarà spuntato un altro brufolo? Perché ho le spalle così piccole? Perché le mie cosce, la mia pancia, sembrano sempre più grosse? E questo seno, cresce o no? Come sono fatto/a? Che cosa è mio?

Per di più ogni cosa sembra continuare a mutare, chissà che succederà domani… Tutto questo è tale da provocare sensazioni di angoscia e paura innominabili. Ed ecco che ci fermiamo ore davanti allo specchio, quasi nel tentativo di studiare la nostra immagine, di riconoscerci in qualche modo, o di dare un ordine a ciò che ci sembra così confuso. Lo specchio alleato, con cui confrontarsi costantemente, e lo specchio ostile, da cui fuggire per il timore di vedervi riflessa un’immagine che non ci piace, che non corrisponde alle nostre aspettative.

Ma la guerra dichiarata è contro il corpo, quel corpo che è diventato un estraneo. E per di più un estraneo ingombrante, che non riusciamo a nascondere, a coprire, quel corpo che mostra delle forme che ci espongono allo sguardo altrui. Chissà che vedono gli altri… Sarò normale? È normale quello che sento dentro, mi appartiene?

Quello che tentiamo inconsapevolmente di controllare è proprio ciò che sfugge al nostro controllo, la sessualizzazione di un corpo pubere, che è sotto gli occhi di tutti. Siamo, evidentemente, maschi o femmine, avvertiamo nuove pulsioni potenti e prima sconosciute, siamo attratti dai nostri coetanei in un modo diverso da prima, che un po’ ci eccita e un po’ ci fa paura, il corpo ci lancia segnali che non sappiamo interpretare ma che intanto sono lì, prepotenti e urgenti, e che non possiamo ignorare.
E non possiamo nasconderle, tutte queste pulsioni ed emozioni, facciamo gesti di cui ci pentiamo un attimo dopo, diventiamo rossi di imbarazzo o di vergogna quando non lo vogliamo…

Nasce davvero un bisogno di restare presso di noi, un bisogno di intimità, ci chiudiamo in camera, non vogliamo comunicare né sentire nessuno, siamo isolati rispetto al mondo degli adulti con cui avevamo prima tanta familiarità. Dobbiamo prendere le distanze dai nostri genitori, finché non avremo trovato un nuovo modo di stare e di comunicare, il nostro nuovo corpo sessuato ce lo impone: lo sviluppo puberale ci ha avvicinato troppo, resi simili a loro, uomini e donne, loro non sono più solo mamma e papà.

Abbiamo perso le certezze costruite durante gli anni dell’infanzia. Avevamo imparato tutte le regole, come comportarci, sentivamo di avere dentro di noi un mondo sicuro con dei genitori che ci guidavano. E ne abbiamo nostalgia. C’è un duro lavoro da fare, un lavoro di lutto per quell’immagine di noi che avevamo costruito, per le figure interne che ci accompagnavano e ci rassicuravano, a tutto questo dobbiamo rinunciare, per poterci lanciare in un mondo completamente nuovo.

Dobbiamo trovare un nuovo senso, un nuovo codice a quello che ci sta capitando e che non abbiamo scelto. Non abbiamo scelto di avere quegli occhi, quel naso, quelle gambe, di essere maschio o femmina, niente sembra dipendere dalla nostra volontà. Siamo arrabbiati, offesi, delusi, insoddisfatti… In bilico tra il mondo dell’infanzia e quello dell’età adulta, tra il bambino che non siamo più e quello che siamo ancora, tra l’adulto che non siamo ancora e quello che cominciamo a essere (come dice A. Birraux).

Anche per questo siamo pieni di contraddizioni: ci comportiamo come se fossimo già adulti ma la regressione è dietro l’angolo, tornare a qualcosa che ci apparteneva da bambini, tornare noi un po’ bambini è un rifugio perché cerchiamo un ancoraggio, un’identità che conoscevamo e così difficile da abbandonare. E viviamo nel caos: proprio perché abbiamo dentro un mondo da risistemare, anche il nostro mondo fuori rispecchia questa disorganizzazione.

Di fronte a un’angoscia e a uno spaesamento che non possono essere completamente sentiti, pena il rischio di un blocco totale, l’unica arma che sentiamo in nostro potere è fare opposizione. Possiamo opporci attraverso i nostri vestiti, i piercing, la musica che ascoltiamo, il linguaggio che adottiamo. Non pensiamo: agiamo, con il corpo e sul corpo, per tentare di riprendere il controllo e per sperimentare le nostre nuove possibilità, imparare a conoscere e guidare questo nuovo mezzo che abbiamo. Diventiamo attivi per contrastare la passività che questo corpo altro ci ha fatto subire.

Perché, quando parliamo di corpo, è chiaro che parliamo di qualcosa che sta al crocevia tra lo psichico e il biologico, e quello di costruzione e ricostruzione di una rappresentazione di sé diventa un lavoro vero e proprio. Un lavoro che da fuori non si vede, un lavoro che nemmeno noi sappiamo di compiere. Attraverso ciò che facciamo, le scelte avventate in cui ci lanciamo, la nostra impulsività, l’incontro con i nostri coetanei, eccitati, spaventati e angosciati quanto noi, stiamo tentando di incontrare noi stessi e di elaborare e riappropriarci di questo corpo. Per poter finalmente dire «Questo sono io».

Che cosa ci occorre per attraversare questa crisi?
È il tempo, un tempo che ci traghetti verso un’identità, un tempo di attesa. Ma il tempo è proprio quello che ci sembra di non avere, noi non ci possiamo fermare. E allora, anche se proprio non possiamo né dirlo né pensarlo, forse avremmo anche bisogno di qualcuno che tolleri per noi. Degli adulti che tollerino il tempo al posto nostro, che tollerino il nostro diventare irritanti, oppositivi, chiusi, provocatori, “incomprensibili”… Adulti che sappiano comprendere che noi, forse per la prima volta, ci sentiamo divisi, non siamo più “noi”, sentiamo che “Io è un altro”, un estraneo inquietante.

Adulti che, nonostante sembriamo strani, non vedano in noi solo un mostro – come è successo al povero Gregor Samsa – ma una nuova vitalità, e che ci sappiano rispettare con discrezione. Adulti che non si mettano a competere con noi ma che ci facciano da limite, perché le infinite possibilità che abbiamo davanti non ci disorientino troppo. Adulti che siano adulti, cioè, come vuole il significato stesso della parola, già “cresciuti” (prima di noi).

Bibliografia
– Birraux, A. (1990), L’adolescente e il suo corpo. Tr. it. Roma: Borla.
– Jeammet, P. (1992), Psicopatologia dell’adolescenza. Tr. it. Roma: Borla.