A distanza. La difficile convivenza con il virus.

 “Non c’è un futuro senza vicinanza, senza stare insieme. […]

Tutto quello che vedete su internet è quella parte che serve a intrattenere e a scaldare ma è fatto di tutta quell’esperienza avuta e quindi dobbiamo in ogni modo fare in modo che ce ne sia altra.”

Ezio Bosso, intervista a Propaganda Live

 

In questo periodo successivo al lockdown, le fasi due e poi tre, in cui ci troviamo, hanno segnato la possibilità di riaprire le porte, di uscire. Ma con un imperativo: stare “a distanza sociale”.

È ancora molto, troppo presto per poter fare una riflessione su quanto è accaduto e sta ancora accadendo. La minaccia del coronavirus, con l’emergenza sanitaria, lo spaventoso numero di morti, la crisi globale da cui nessuna nazione al mondo si è scoperta esente, ha sconvolto la nostra quotidianità e le nostre illusorie certezze di “padroni del mondo” (leggi anche Il disagio della società e i disturbi alimentari). Ci ha gettati, nostro malgrado, in uno stato in cui si muovono profonde angosce e paure, legate alla morte e alla perdita.

 

Dalla quarantena…

 

Nella fase della quarantena, tante sono state le difficoltà e anche le modalità per esorcizzare questi vissuti: ci siamo gettati nelle attività più disparate e spesso nuove, tentando di risollevarci nella forza della creatività (leggi anche Alimentazione e attività fisica ai tempi del coronavirus. Consigli pratici per affrontare la quarantena). Abbiamo utilizzato tutte le risorse messe in campo dalla tecnologia, i video di notizie o intrattenimento, chiamate, videochiamate e piattaforme per studiare, lavorare, incontrarsi, proseguire le psicoterapie (leggi anche COVID-19 e Disturbi Alimentari: il doppio isolamento). Abbiamo letto, pulito, cantato, cucinato, fatto sport, abbiamo tentato di cancellare il nero del lutto con i colori dell’arcobaleno, rassicurandoci che “andrà tutto bene” e ripromettendoci di fare tesoro di quanto vissuto. L’isolamento ci ha fatti sentire troppo vicini, invasi dall’ininterrotta presenza di familiari e conviventi, suoni e immagini, tra le mura di una casa improvvisamente troppo piccola, oppure troppo lontani, con la nostalgia di eventi, aperitivi, persino del traffico.

Ci siamo chiesti perché e come fare, e ci siamo risposti in vario modo, chi riponendo tutte le speranze nella scienza, chi tentando di individuare “i colpevoli” (da fantomatici “laboratori cinesi” ai “runners”), chi rivolgendosi a pratiche igieniche al limite dell’ossessività, chi cercando conforto nel cibo, nell’alcol, nei videogiochi, per non pensare, chi minimizzando e comportandosi come se nulla fosse. In questo tempo di attesa, contemporaneamente dilatato e contratto, abbiamo insomma attivato difese e cercato soluzioni alla noia e a un’angoscia intollerabile che ci ha costretti a prendere coscienza della nostra fragilità, della nostra caducità.

 

…alla riapertura

 

E ora che le porte sono aperte, ora che possiamo di nuovo uscire, incontrarci?

Di nuovo, anche nel confronto con il mondo esterno dopo la quarantena, quello che vediamo sono tante reazioni diverse. Molti, soprattutto tra gli adolescenti e i giovani, si sono riversati nelle strade e nei locali inneggiando alla ritrovata libertà, trasgredendo a norme e precauzioni, a gettare, insieme alla mascherine e alla distanza di sicurezza, preoccupazioni e paure. “Il virus non esiste più”, sembrano dire i loro comportamenti, è lontano, siamo “tornati alla normalità”. Per converso, altri faticano persino ad affacciarsi di nuovo al mondo, guardano con sospetto le persone che camminano intorno a loro, preferiscono forse stare ancora rinchiusi nel rifugio sicuro delle case, diventate l’unico schermo contro una minaccia invisibile e onnipresente. Tutto ciò che è fuori, l’altro, diventa un nemico pericoloso da cui tenersi alla larga.

Sottesa alle diverse reazioni, possiamo forse intravedere la stessa angoscia, negata o portata all’esasperazione, che ci parla della difficoltà a confrontarsi con l’impatto traumatico della pandemia. Ed è un trauma che non possiamo dire superato né mettere tra parentesi, sia per il persistere del virus, sia per il suo impatto devastante su un piano più ampio, non solo sanitario ma economico, sociale, psichico. Ci troviamo spaesati e disorientati in un presente confuso, con la prospettiva di un futuro incerto, in cui spesso ci troviamo a sovrapporre a quanto viviamo la carta velina colorata dei ricordi della “normalità” di prima, tentando di ritrovarla in controluce, nelle strade senza turisti, nei negozi dagli ingressi contingentati, nei volti coperti dalle mascherine.

E particolarmente difficile sembra proprio l’incontro con l’altro, altro che diventa qualcuno da cui guardarsi: sarà infetto? Dove sarà stato? Chi avrà frequentato? Restiamo a distanza, temiamo il contatto.

 

Contatto e contagio

 

Contatto e contagio condividono la stessa radice etimologica, “con” e “toccare”: se mi tocco con l’altro, se entro in contatto, rischio il contagio. Per mantenerci “intatti”, cioè, di nuovo, non toccati, quindi non infetti, dobbiamo stare lontani, persino da quelle persone che ci sono più care; chiunque è portatore di una minaccia. L’angoscia e l’inquietudine dell’altro da noi, dell’estraneo, che già normalmente ci informa, sembra così diventare ancora più invadente, perché poggiata su un ineludibile elemento di realtà: come poter superare la nostra stessa percezione, lì dove i nostri incontri avvengono, e non potrebbe essere diversamente, da dietro lo schermo di mascherine, guanti, disinfettanti? Come mantenere uno spazio di pensiero e di investimento, al di là dell’angoscia?

Noi stessi potremmo del resto essere portatori di contagio, l’estraneo inquietante è, come sempre avviene, prima di tutto dentro di noi. Questo pensiero, tuttavia, può richiamarci a noi stessi, invitandoci a un senso di responsabilità e di cura, a un contatto di tipo diverso: «Le mani non possono raggiungere l’altra persona; è solo dall’interno che possiamo approcciarci all’altro. E la finestra di questo “dentro” sono i nostri occhi» scrive il filosofo Slavoj Zizek (2020). Un contatto come contatto delle anime, lì dove i corpi non possono toccarsi. Dove la distanza deve essere fisica, ma non necessariamente sociale e psichica. Dove i nostri sensi “distali” (vista, udito) e le nostre emozioni testimoniano la presenza dei corpi e ci permettono comunque uno stare insieme, seppure sotteso da dubbi e paure, laddove restiamo in contatto con quella parte di noi, angosciata ma vitale, desiderante, che può incontrare l’altro.

Ezio Bosso, direttore d’orchestra da poco purtroppo scomparso, ci ricorda che l’uomo ha per la sua natura stessa bisogno della vicinanza e del contatto. Quella tecnologia a cui abbiamo fatto necessariamente riferimento durante la quarantena non può rivelarsi come la panacea, la via di uscita dall’impasse, perché appunto, se non rinnoviamo l’esperienza, rischia di trasformarsi in un contenitore vuoto, in puro intrattenimento, un modo per riempire il tempo, svuotandolo però del suo significato. Aperitivi virtuali, lezioni virtuali, giochi virtuali, nel loro reiterarsi, rischiano di privarci di quell’esperienza reale di cui abbiamo bisogno come esseri umani per crescere e arricchirci.

Il contagio stesso, inteso nei suoi aspetti più ampi, trova del resto anche a distanza altre vie per renderci esposti. Sempre Zizek nota, in questo periodo più che mai, il diffondersi di “virus ideologici” come il razzismo, le teorie cospiratorie, le fake news. Un contagio della paura che ci spingerebbe a chiuderci, a diffidare, ad allargare sempre più la distanza. Ma anche, per contro, un contagio della solidarietà, lì dove tante sono le iniziative di sostegno e di volontariato a cui abbiamo assistito (dalla “spesa sospesa” in favore delle persone più in difficoltà, alla consegna di beni e farmaci alle persone più fragili, alle donazioni in favore di associazioni e ospedali).

Come a dire che siamo tutti in una stessa barca e che non ci si salva da soli. Sarà probabilmente necessario un tempo lungo, per attraversare questo mare in tempesta e ancora più per elaborare un trauma collettivo, in cui non possiamo fare altro che stare e i cui effetti ci sono ancora del resto in buona parte ignoti. Ma, appunto, forse solo il senso della collettività, il ritorno al legame può costituirsi in questo momento di grave crisi come possibilità di rimarginare la profonda ferita inferta alle nostre certezze come pure ai nostri corpi fragili. Che ci ha distolti dall’illusione e riportati alla condizione di esseri vulnerabili, esposti e imperfetti, di esseri umani.

 

Bosso, E. (2020), Intervista a Propaganda Live, 10/04/2020 https://www.la7.it/propagandalive/video/lintervista-di-diego-bianchi-a-ezio-bosso.

Zizek, S. (2020), Virus. Catastrofe e solidarietà. Ponte alle Grazie, Milano.