Il disagio della società e i disturbi alimentari

 “Siamo andati avanti così rapidamente in tutti questi anni che ora dobbiamo sostare un attimo per consentire alle nostre anime di raggiungerci.”
Michael Ende, La storia infinita.

I disturbi alimentari si costituiscono ormai come una vera e propria epidemia sociale (Vedi anche Disturbi dell’Alimentazione – Ministero della Salute), rappresentando la prima causa di morte nella popolazione di adolescenti di sesso femminile. Ma cosa ne ha favorito la sempre maggiore diffusione? Si può parlare di un disagio della società attuale? (Leggi anche Cosa sono i Disturbi dell’Alimentazione e come combatterli; Nuovi disturbi alimentari in adolescenza)

I disturbi alimentari hanno un’origine multifattoriale, ossia sono determinati da un insieme di fattori biologici, psicologici, evolutivi e socio-culturali. La vulnerabilità genetica, eventuali esperienze traumatiche, l’ambiente familiare e sociale, la particolare fase di crescita in cui la persona si trova, le caratteristiche più individuali e i tratti di personalità possono costituirsi come fattori patogenetici, che cioè, nel loro complesso intreccio, possono far scaturire un disagio e dunque una patologia.

Qual è, all’interno di questo quadro, il ruolo del più ampio ambiente socio-culturale in cui la persona è inserita?

La cultura comprende i valori, le regole comportamentali e i significati condivisi dai membri di una società, di cui orienta la visione e il modo di stare al mondo. I fattori culturali, in sé e per sé, non sembrano in grado di spiegare e determinare la patologia nel suo complesso. Hanno però un ruolo importante nel modellare la forma che i sintomi possono prendere, nel mostrare quindi al malessere un modo attraverso cui esprimersi e sfogarsi. È quello che chiamiamo effetto patoplastico. Laddove, in altri tempi, il disagio individuale avrebbe potuto sfociare in una patologia di tipo diverso (depressivo o isterico ad esempio), oggi quello stesso disagio trova spesso la propria via di espressione privilegiata attraverso il corpo e l’immagine corporea, che sono al centro dei disturbi alimentari.

Una società ammalata?

L’epoca attuale ha visto profonde e velocissime trasformazioni a livello economico, tecnologico e sociale: la globalizzazione, il consumismo, uno sviluppo senza precedenti della tecnologia, la diffusione dei mezzi telematici e informatici che occupano un posto sempre più rilevante e influente nella nostra vita.

Bauman definisce la nostra una “società liquida”, volendo evidenziarne il carattere di precarietà e di perdita dei punti di riferimento. Una società che ci spinge al consumo piuttosto che all’uso, che ci invita a comprare sempre nuovi oggetti e acquisire sempre nuovi “status”, senza che sappiamo più perché o persino se li vogliamo veramente. Una società, quindi, in continuo e rapido movimento, che cerca un immediato godimento nell’attimo presente ma sconnessa dal desiderio, che prevede invece la mancanza e l’attesa.

È il criterio del “tutto e subito”, una logica utilitaristica che cancella anche il “principio di autorità”: i genitori, e gli adulti in generale, hanno perso il loro potere e non si pongono più né da limite né da modello nei confronti delle nuove generazioni, protese verso il raggiungimento del successo. Diventa difficile dire “no”. Si preserva allora la libertà individuale a scapito però di un legame che, nello stabilire dei limiti, pone anche dei confini sarebbero invece rassicuranti. I giovani possono sentirsi più potenti e competenti dei padri (ad es. nell’utilizzo di internet e delle nuove tecnologie) ma, nella perdita di punti di riferimento, sono in effetti lasciati soli a sé stessi, spaesati e disorientati.

È di questo senso di incertezza, di disorientamento, di disgregazione, che Beanasayag e Schmidt parlano quando nominano la nostra “l’epoca delle passioni tristi”. A fronte di un futuro percepito come sempre più precario e minaccioso, l’unico tentativo è quello di dotare i propri figli di armi che permettano loro di affrontare e superare la crisi, renderli vincenti.

Si genera così un individualismo estremo, che rende  le persone antagoniste, piuttosto che vicine e disponibili a uno scambio reciproco. Fin dai tempi della scuola, è l’insegnamento “utile” quello che deve essere portato avanti: ciò che conta è il risultato, non il processo. Ognuno deve “fare da sé e per sé”, per essere “il migliore”, nella sola ottica del vincere o perdere, riuscire o fallire. Una continua tensione alla meta, in cui bisogna imparare presto, agire e rispondere velocemente, in giornate rigidamente scandite dall’agenda, il tempo non basta mai. Ciò che devia dalla “norma” è considerato disfunzionale: non avere la taglia della modella vista in TV, non vestire secondo una certa tendenza, non ottenere quel voto in classe, essere triste o non riuscire in qualcosa. La prestazione diventa allora l’unico metro per definire l’identità e l’autostima, dove ciò che “non va bene”, ciò che “non funziona” è uno scarto, deve essere tagliato via. La tecnologia ci viene in aiuto in questo senso, rendendo possibile quasi tutto ciò che è pensabile, riparando e correggendo gli “errori”: cancellare i segni del tempo, far sparire immediatamente il dolore, annullare le distanze, essere sempre connessi e una garantirsi una visibilità continua, anche rispetto agli aspetti più intimi dell’esistenza (Leggi anche L’uso dei social network nell’eziologia dei Disturbi Alimentari).

Tagliando lo scarto, però, non ci si rende conto che si rischia di eliminare una parte di sé, quella che consente di vivere le emozioni e di creare e mantenere dei legami, con sé stessi e con gli altri. Lo sguardo è rivolto fuori, piuttosto che dentro di sé, nell’idea di adeguarsi ed essere sempre in linea con le richieste esterne, con ciò che è bello e utile secondo i dettami della società (Leggi anche La brava figlia: cosa avviene prima dell’Anoressia Nervosa).

La società dell’immagine

In un mondo dove i media, internet, i social network, si prestano a sostituirsi ai legami e agli adulti di riferimento nel fornire un modello e una chiave di lettura del mondo stesso, l’immagine diventa tutto ciò che conta. È una società che propone continuamente standard ideali, stereotipati e spesso irraggiungibili da cui dipendere per eliminare il senso di insicurezza e disorientamento. Il confronto è costante, diventa primario ottenere quelle forme perfette che non si vedono su di sé. Ma la società propone anche i mezzi con cui promette di ottenere ciò che “si vuole”: diete, palestre, esercizi spirituali, chirurgia… Purché ci si impegni, viene assicurato che si otterrà quel che renderà felici, perché proprio nel corpo, che ci si illude di poter controllare e modellare a proprio piacimento, si cerca la chiave con cui definire la propria identità, nell’idea che si è chi si appare.

Naturalmente, dunque, il problema non sta nella dieta, o nella palestra (Leggi anche L’estate e la moda del dieting: quali sono i rischi per gli adolescenti?), ma nella rigidità con cui il bisogno di avere un corpo perfetto assurge a scopo dell’esistenza, nella misura in cui quindi questi strumenti divengono l’asse centrale attorno al quale definirsi. Pensando a quanto in adolescenza la perdita di controllo rispetto al proprio corpo e alle proprie pulsioni ed emozioni sia avvertita come angosciante (Leggi anche Pubertà e corpo in adolescenza: che cosa mi è accaduto?), è ancora più chiaro il tentativo che alcuni adolescenti, in un momento di fragilità e insicurezza, possono fare per aggrapparsi a questo ideale. E proprio negli estremi di questa tendenza alla perfezione e al controllo, in quelli che sono in effetti dei veri “attacchi al corpo” (Ladame, 2004), si può allora esprimere quel disagio più profondo che fa capo alla difficile costruzione della propria identità e che sottende i disturbi alimentari.

Quale modo per “consentire alle nostre anime di raggiungerci”?

Il corpo di ciascuno di noi non è solo corpo fisico, ma si costituisce all’interno di una continua relazione con la psiche. Solo ritrovando nel corpo, nel suo particolare statuto al crocevia tra interno ed esterno, la possibilità di provare e manifestare non solo il bisogno ma anche il desiderio, la pulsione, l’emozione, il conflitto, possiamo restituirgli lo spessore che gli è proprio. Non solo un insieme meccanico di funzioni, non solo un’immagine da ammirare, esibire, modificare e perfezionare, ma espressione incarnata della ricchezza del proprio mondo interno e in continuo scambio con l’altro. È in questa complessità, nella possibilità di rinunciare all’ideale magico di perfezione, di ritrovare “l’utilità dell’inutile” (Benasayag, Schmidt, 2003), di sostare, di non affannarsi a tagliare via parti di sé ma contattarle e integrarle, che si può forse ricongiungersi con “la propria anima”, come dice Michael Ende riportando una frase sentita da un indigeno dell’America Latina.

Rispetto ai disturbi alimentari, allora, si impone la necessità di un trattamento integrato, per prendersi cura in maniera congiunta del corpo e della psiche, rimetterli in contatto e costruire insieme dei legami di senso, come possibilità di ritrovare creativamente sé stessi e la propria identità.

 

Bibliografia

Bauman, Z. (2005), Vita liquida. Tr. it. Laterza, Roma-Bari 2006.

Benasayag, M., Schmidt, G. (2003), L’epoca delle passioni tristi. Tr. it. Feltrinelli, Milano 2004.

Ladame, F. (2004), Attacchi al Corpo ed il Sé in pericolo in Adolescenza. Childhood and Adolescent Psychosis, 10, pp. 77-81.